È da tempo che un pensiero mi accompagna, ed è da tempo che lo rimando ma ora sento il bisogno di abbozzarlo almeno in forma di primo articolo. Perché ogni volta che riascolto una canzone del Signor G, ogni volta che ripenso a un suo monologo, mi accorgo che lì dentro c’è già scritto tanto: il presente che stiamo vivendo, con le sue paure, le sue contraddizioni, i suoi paradossi digitali.
Gaber aveva visto lontano. Con la lucidità di chi osserva l’essere umano senza sconti, aveva compreso quanto facilmente potessimo diventare spettatori di noi stessi. Oggi non serve neppure il palcoscenico: basta uno schermo. Le discriminazioni, le esclusioni, le identità che si costruiscono e si distruggono a colpi di algoritmo… sono tutte facce nuove di un vecchio problema, quello dell’uomo che smette di interrogarsi, di pensare, di scegliere.
Il suo teatro-canzone non era solo spettacolo, ma una lente di ingrandimento sul nostro modo di vivere. Non dava risposte: le metteva in crisi. Ci spingeva a guardare dentro le nostre certezze, a smontarle, a capire quanto spesso la libertà fosse solo una parola pronunciata con leggerezza.
Insieme a De André e ad altri grandi cantautori, Gaber aveva iniziato una rivoluzione silenziosa: quella del pensiero. Aveva messo al centro l’uomo, con le sue fragilità e le sue maschere, con il desiderio di autenticità soffocato dalle convenzioni.
“E pensare che c’era il pensiero” non è solo un titolo, ma un avvertimento. Oggi, mentre viviamo immersi negli algoritmi, tra intelligenze artificiali e un modo di comunicare che – forse – ci rende più soli che mai, le parole del Signor G risuonano.
Forse per capire il nostro presente, dovremmo tornare ad ascoltare chi lo aveva già previsto.